La critica

La nuova solitudine di Bruno Zoppetti

di Piero Del Giudice

(Milano, settembre 1998)

La invasiva, potente eruzione di materia sulle tele di questo artista, si origina da un creato che si dà prima.
“Come posso ridurre in un modesto spazio ciò che mi circonda, così intenso e compiuto?”, si chiede l’artista.
La pittura è corpo nella natura, nella materia, paesaggio che appare nel corpo, natura che ci circonda. Nel rapporto tra natura e forme che emergono e fronteggiano il magma naturale, si fonda il mistero, il limite e la inconoscibilità, la strada della ricerca e del conflitto. Madre è il buio, anzi “un vuoto”, “uno spazio” che all’artista appare più denso della materia costitutiva degli oggetti, e che egli non individua ma percepisce: spazio, buio originario.
“Non ci siamo fatti da noi”, afferma Zoppetti. Possiamo forse intuirci, ma non conoscerci; gli strumenti del processo di conoscenza, le armi del conflitto sono per il pittore, di “disarmante inconsistenza” come il colore che altro non è che luce. I quadri vengono, è vero, fatti dal pittore, ma il suo
linguaggio è inconoscibile a lui stesso e del resto non è che “traduzione di una traduzione”. L’artista non può che essere il complesso terminale, frutto molteplice condizionato e generato. Lo genera il “padre”, con cui è in eterno conflitto, sanguinoso. Questo “padre” è entità religiosa, presenza panica, natura naturans che ci precede e ci supera di continuo: la forma, i corpi sulle tele si esaltano e vengono schiacciati, si affermano in potenza e vitalità e finiscono sommersi. Questo “padre” è quello biologico, il padre quotidiano, la sua presenza edipica, la sua incuneazione psichica. “Padre” è la stessa pittura e la sua storia: i precedenti e i contemporanei, altri artisti, altri pittori, altre opere prima di queste grandi tele, carte, cui l’artista lavora con ostinazione, con strumenti “poveri” e antichi: colori, pennelli, tele, carte, polveri cromatiche.
Nel cortile interno di una strada lungo una delle più vecchie prospettive di Milano, lo studio non può che essere anche officina artigianale, ondalux e lamiere, pareti arroventate nelle estati e umide negli inverni delle stagioni urbane, il lavoro del pittore, lo stesso pittore che si sente dentro la tradizione della pittura: “anello di una catena”
Le tele e le carte che Zoppetti presenta in questa occasione sono estrema esperienza di una perdita, di una sottrazione della figura, della sua plasticità, della sua struttura, dentro una materia mai così libera e così ribollente. Si tratta di un ciclo di lavoro a grandi scansioni per esiti pittorici che si astraggono dalle forme consuete e liberino forme la cui memoria e il cui sembiante figurale si sono persi. Se sono corpi sono già paesaggio, se sono consistenze plastiche sono “resti”, larve, crisalidi del nuovo, apparizioni sul fondo della materia: galleggiamenti, trasformazioni e metabolizzazioni. Lontani dalla potente e centrale affermazione di figure vitali e cariche di sensualità che all’esordio della prima maturità di Zoppetti, presero il nome di Bagnanti dentro nuove possibilità della figura, nuovi esiti. La pittura di Zoppetti si è sempre risolta rendendoci una forte tensione antinomica. Egli tiene sulla tela o nei cicli di lavoro poli di gravitazione e interesse opposti, rendendo sulla superficie dipinta condizioni drammatiche, dinamiche di aperto contrasto.
Luce-ombra, città-campagna, interno-esterno, figu ra-informe, “monumento” e paesaggio, presa diretta dell’immagine e immagine “da”, occhio sul reale e studio colto, d’après; ritratto di persona in carne ossa davanti al pittore e ritratto da fotografia.
Una serie di carte, disegni e incisioni di alcuni anni fa convergono sul tema del “pittore nel paesaggio”. All’origine c’è una vecchia foto di Renoir che dipinge su una grande tela dentro un paesaggio di natura con spettatori distratti immersi nel verde e nella luce del medesimo paesaggio. Zoppetti si applica a questo archetipo perché lo considera una possibile immagine di sé stesso mentre dipinge nel paesaggio e si tratta di una immagine riflessa, Il pittore non può che fare un sé “riflesso”, riverberato dalla storia della pittura, dalla sua fruizione, nella sua mitologia. Questo condizionamento del “fare” sta dentro al condizionamento stesso di una natura a sua volta riflessa nelle trasformazioni della sua essenza e della sua immagine. “L’anello della catena” è il risultato di un molteplice condizionamento e di una nuova solitudine. La figura va creata; l’artista non ha più riferimenti possibili. La folla di precedenti e di comprimari che l’artista sentiva prima di mettersi di fronte alla tela e di fronte alla realtà lo abbandona, così come lo abbandona una memoria fruibile della figura, una figura visibile e consueta.
La tensione, le antinomie, il conflitto che si accendono nel lavoro di oggi convergono nella ricerca e intuizione visiva di una immagine originale. Questa immagine va cercata in un reale-naturale, ormai privo dei condizionamenti e dell’ausilio della storia della pittura, dentro una continua trasformazione. Se sono remote le “felici” intuizioni plastiche, quasi sorgive, dell’esordio, si rappresenta oggi una tragica esperienza della figura e della natura.
Vi dominano, campeggiano, colorature cruente, forme tornite di rosa di carni, velature di sudari insanguinati. Ancora corpi, ma smembrati: membra, quarti, cumuli in sagome smontate, assenze di vita. La sequenza in tre tele, in progressione cronologica, del ciclo Ciò che rimane ne è esito riuscito e drammatico. In un improbabile interno si accumulano resti rilevati da una luce notturna, si intuiscono forme umane, rotture di arti e devitalità da manichini. Il ciclo tormina con la grande tela a dominante blu che ne porta Iiiitt”;t~tzione; il varco-finestra su una luce siderale, configura la grande stanza, il grande topos, il luogo della sacralità del dramma, dove si è consumata una tragedia e insieme una esperienza collettiva, di cui l’artista, di nuovo “sacerdote” ne celebra con il quadro la consapevolezza, la possibilità di una nuova narrazione, la presa. Qui si invera in opera quello “spazio, quell’aria più densa della materia degli oggetti” di cui parla Zoppetti, qui si sposta il “paesaggio” dentro un “tempo” quasi cosmico ma presente alla storia, carico delle inquietudini o presagi che viviamo. La crisalide, il bozzolo, tante volte intravisti, in tanto tumulto di materia emersi e risucchiati, si aprono e collocano in forti strutture rifondate, gravi della loro raggiunta maturità.

bruno zoppetti

L’approdo di Bruno a Tenero

“Sarebbe forse ritenuto più serio, o addirittura più degno, affermare che l’approdo di Bruno Zoppetti a Tenero si situa nel solco di un interesse organico che la Galleria Matasci riserva agli immaginari poetici, e alle conseguenti sedimentazioni artistiche, di una mitica Padania, per taluni divenuta territorio privilegiato del sogno, non solo politico. Non è così: come già si è detto più volte, la Matasci espone solo quanto ha toccato la corda dell’emozione, applicando così un criterio assolutamente soggettivo, una “linea espositiva” che non ha altro referente se non l’assoluto potere discrezjonale dei curatori.
Ed è questo l’unico motivo per il quale, con Bruno Zoppetti, torna a popolare le sale della Galleria quel diario interiore che, forse con più acribia che altrove, tra le nebbie di questa piana uomini taciturni e severi redigono senza posa sugli spazi della tela, del bronzo o del legno, con una rabbia e con una speranza la cui intensità è pari almeno alla coscienza dell’impossibilità di trovare un porto di quiete in questo interno peregrinare.
Sarebbe perfettamente inutile parlare della se-
rietà della ricerca di Zoppetti, dell’impegno assoluto e senza compromessi che caratterizzano il suo lavoro di artista vero, della qualità del tessuto pittorico in un percorso che lo conduce da sintassi rattenute e sospese a idiomi pittorici di estrema libertà; sarebbe inutile se a tutto ciò non corrispondessero esiti che si impongono – con sorprendente costanza di risultato – come misurato correlativo oggettivo dell’emozione; un’aderenza al sentimento che si intuisce perfettamente adeguata e che lo spettatore sperimenta come potentemente evocativa.
I testi raccolti in questo volume, unitamente alla riproduzione delle opere in mostra, forniranno indicazioni per un confronto-colloquio con una pittura di valenza energetica non comune, animata da ferali presentimenti o da un senso di abbandono-partenza imminente, con la figura in perenne bilico tra apparizione e vaporazione, coagulo di attesa dolente o vortice di energia in cui la presenza umana sembra dissolversi. Ancora una volta, una pittura dalla frequentazione della quale le nostre comodità interiori ben difficilmente possono uscire indenni.”

L’angelo capovolto (di Emilio Tadini)

Dal 1985 ad oggi, nella pittura di Zoppetti cambia profondamente il rapporto tra la figura dei personaggi e degli oggetti e quella che potremmo chiamare la figura dei luoghi, dell’ambiente. Nei primi quadri, il profilo della figura del corpo, del personaggio, è piuttosto netto. Una specie di individuazione definita. Così come è definito lo spazio – anche attraverso linee prospettiche.

Questa individuazione di personaggi e di spazi non induce in noi una sensazione di ordine, di quiete, di tranquillità. Ci sembra di sentire la presenza di qualcosa di drammatico, di violento, anche di minaccioso.

Che cos’è che produce questa sensazione? A volte, è la posizione, sono i gesti del personaggio a metterci in allarme. Guardiamo la Donna nel bar, del 1985 (cfr. p. 17). Quella faccia stravolta, dura e disperata, ma soprattutto quel gesto “a vuoto”, quelle dita uncinate…

Altre volte, i personaggi sono fermi, non si atteggiano in pose spaventate, o spaventose. Ma quella sensazione di drammaticità rimane, si fa sentire con altrettanta forza. Da che cosa dipende? Forse dipende dall’ombra – da quell’ombra che sembra calare sui quadri, sulle cose.

Questa ombra non è l’ombra atmosferica prodotta dall’avanzare di un crepuscolo, di una sera, di una notte. Sembrano luoghi, questi, lontani, in qualche modo, dalla luce.

È la pittura che produce questa ombra che oscura i quadri, le immagini, la forma dei personaggi e dei luoghi? Si dovrebbe rispondere di sì – nel senso che, materialmente, una certa quantità di colore scuro è stata prima impastata e poi deposta sulla tela. Eppure viene voglia di dire, e sembra di poter dire, che la pittura qui non produce l’ombra, ma, se mai, la contrasta.

Questa pittura contrasta l’ombra non soltanto nel senso che qualche colore più chiaro è stato steso e lavorato sulla tela accanto ai colori scuri. Questa pittura sembra contrastare l’ombra per quella che è la propria natura. Per la volontà che muove quella pittura, potremmo dire.

È come se il pittore si trovasse di fronte a qualche buio piuttosto angoscioso e si sforzasse di diradarlo – una pennellata dopo l’altra. Come se il prendere forma delle cose – oggetti, personaggi, luoghi – fosse determinato dalla ostinata ricerca di qualche luce.

È faticosa, questa luce. Perché è faticosa quella lotta con il buio. Una specie di lotta con l’angelo. Un angelo capovolto, molto scuro, diffuso nell’ombra…

A un certo punto, in questa pittura, la definizione del corpo del personaggio e del luogo in cui quel personaggio si pone, si fa più debole. E come se la materia della pittura – o quella che ci viene di chiamare la “dinamica” della pittura

– facesse saltare qualche confine. Come se non potesse più tenersi a freno nella definizione di una forma. Come se paesaggio, ambiente, e figure, fossero percorse – “uniformate” – dalla stessa ondata di energia. Un quadro del 1991 si intitola Paesaggio nelle figure (Tav. 25).

Da quel punto, la pittura di Zoppetti mette in scena di continuo una contraddizione profonda. La contraddizione tra una tendenza a individuare gli elementi che entrano nel quadro e una tendenza a disperderli più o meno integralmente nel flusso della materia pittorica.

Forse, potremmo anche dire che qui si mettono in gioco due desideri contrapposti – e complementari. Forse, sono indicati, questi desideri, dalla traccia stessa della pennellata. A volte, sembra che la pennellata si concentri, si dia da fare, ripetendosi affettuosamente, sui lineamenti dell’oggetto, del personaggio. Altre volte, è come se la pennellata si accanisse contro la forma dell’oggetto, del personaggio. Come se volesse letteralmente disfarla. Come se volesse opporgli la forza non resistibile di qualche energia – di una energia troppo violenta per accettare la presenza di una forma definita, individuata. Tale, insomma, da resisterle.

La contraddizione di cui si è parlato si mostra nei singoli quadri e si mostra nella successione dei vari quadri. E una contraddizione produttiva, fondamentale. È proprio grazie al permane-re di questa contraddizione che la pittura di Zoppetti può continuare ad agire. La cosa e il personaggio non si disfano del tutto nel fluire della pittura che invade la tela. E la materia pittorica non può correre nello spazio della tela senza incontrare ostacoli.

È come se la materia della pittura tendesse a ostentarsi come pura energia, capace addirittura di demolire, di distruggere la forma individuata di ogni immagine. E, insieme, è come se la materia della pittura fosse portata da qualcosa che le si contrappone a piegarsi, a trasformarsi in elemento costruttivo, a farsi immagine individuata.

Qualcosa resiste, ostinatamente. Qulcosa, ostinatamente, tende a escludere ogni resistenza. Le immagini della vita individuata si alzano faticosamente, in questi quadri. Nel subbuglio della pittura, faticosamente, qualche energia continua ad abbattersi su qualcosa che le si oppone.

A questo punto, dovremmo forse cercare di dire esplicitamente quale sia il senso di questo lavoro? Sarebbe un po’ come uscire da questa pittura. Ma qui si sta cercando di entrarci, in questa pittura. Si sta cercando di starci dentro.”

Milano, dicembre 1993.
Tratto dal volume “Emilio Tadini, Franco Loi, Bruno Zoppetti: Bruno Zoppetti. Opere 1984-1993. Quaderni Galleria Matasci n.13, Tenero, 1994″.
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Del suo lavoro hanno scritto:

Mario Barzaghini – Francesca Brambilla – Mario Carzaniga – Gino Casiraghi – Piero Del Giudice – Mario De Micheli – Marina De Stasio – Elda Fezzi – Carlo Franza – Silvia Giacomoni – Sebastiano Grasso – Claudio Guarda – Alfred Heindeben – Lino Lazzari – Fausto Lorenzi – Franco Loi – Maria Grazia Recanati – Francesco Porzio – Sandro Sardella – Marcella Snider – Luciano Spiazzi – Emilio Tadini – Guglielmo Volonterio.

Cenni bibliografici:

Elda Fezzi: Bruno Zoppetti. Catalogo della mostra alla Galleria Hatria, Bergamo, 1985.

Francesco Porzio: “Quattro pittori bergamaschi: Bruno Visinoni, Gianfranco Bonetti, Bruno Zoppetti, Aurelio Bertoni”, catalogo della mostra, Associazione Artisti Bresciani, Brescia, 1989.

Mario De Micheli: Bruno Zoppetti. Opere recenti. Catalogo della mostra alla Galleria “delle Ore”, Milano, 1990.

Franco Loi: Bruno Zoppetti. Opere recenti. Catalogo della mostra alla Galleria “delle Ore”, Milano, 1992.

Emilio Tadini, Franco Loi, Bruno Zoppetti: Bruno Zoppetti. Opere 1984.1993. Quaderni Galleria Matasci n.13, Tenero, 1994.

Piero Del Giudice: Bruno Zoppetti. Opere 1994-1998. Catalogo della mostra alla Galleria Mosaico, Chiasso, 1998.